venerdì 15 febbraio 2008

Bollywood: vedere per credere


Chi non ha mai visto un film Made in Bollywood dovrebbe provare almeno una volta nella vita.
E' un'esperienza indimenticabile.
Non è necessaria la conoscenza dell'hindi o del tamil. In questi film c'è così tanto di tutto che i dialoghi sono un surplus. Così tanto di tutto che la durata media di un film indiano è sulle 3 ore. Lo slogan della RAI "di tutto, di più" deve essere stato in realtà rubato a Bollywod. Consiglio quindi scorte abbondanti di popcorn. L'ideale per un'esperienza culturalmente completa sarebbero i popcorn masala, cioè superspeziati, che vendono nei cinema indiani. Accompagnati, questo è fondamentale per la vostra sopravvivenza, da litri e litri di bevande.

Come tutte le arti del subcontinente, dall'architettura alla pittura allla moda, il cinema indiano è all'insegna di accumulazione, ricchezza e ridondanza, secondo la regola aurea del Much More is Much More. Ma il film medio commerciale va mooolto oltre quello che la nostra limitata immaginazione occidentale suggerirebbe. In ognuno di questi film, qualunque sia l'argomento o il genere, non possono mancare inseguimenti, pezzi musicali con i protagonisti che cantano e ballano, scene romantiche, acrobatiche, comiche slapstick e, se possibile, inserti cartoon.
La ridondanza è evidente anche all'interno di ognuna di queste singole sequenze: se la protagonista scende dall'auto con i capelli al vento, la vedremo inquadrata da otto angolazioni diverse, dall'alto-dal basso-in primo piano-di profilo-in campo lungo-in dettaglio come da noi sarebbe tollerabile solo in un videoclip o una pubblictà. Poi la bella di turno fa due passi verso il belloccio che l'aspetta dall'altro lato della strada e partono una dozzina di inquadrature analoghe su di lui. E poi si torna da lei e così passano cinque minuti in cui non succede niente ma riesci ad imparare a memoria la canzone di sottofondo (in tamil stretto) che a volume altissimo ha accompagnato tutta questo inutile siparietto. In pratica in sala montaggio non buttano via niente!

Ma il modo migliore per apprezzare la differenza di canoni estetici tra il nostro e il loro cinema è vedere il remake bollywoodiano di un film hollywoodiano.
Francesco ed io abbiamo avuto il piacere di assistere ala versione indiana di 3 scapoli e un bebè (già remake del francese 3 uomini e una culla).
Si lo so, avremmo potuto scegliere qualcosa di meglio ma gli indiano sono così amanti del cinema che in ben due multiplex tutte le sale erano già piene e prenotate da giorni (!) anche allo spettacolo delle 10 di mattina!!

Del film, ricordo con piacere misto a orrore la gag del pannolino: un pannolino sporco sfuggito di mano a uno dei ragazzi volava al ralenty verso gli altri due che impietriti dal panico del momento non riuscivano a scansarsi... fino all'inevitabile conclusione. Quello che in un nostro film sarebbe durato una decina di secondi qui era dilatato per 3 minuti interi, con innumerevoli primi piani dei due uomini terrorizzati e quel volo al ralenty del pannolino sporco così lungo, insistito, quasi lirico, da far ripensare a 2001 odissea nello spazio (e dopo questo commento Kubrik si rivolta nella tomba.. al ralenty).
Per non parlare del fatto che si vedeva benissimo la cacca sul pannolino e poi sulla faccia del poveretto. Trashissimo!!

Poi i tre, a causa degli impegni da padri, vengono lasciati dalle loro donne e ammiratrici (ognuno ne ha una decina, ma niente paura: sono tutte promiscue occidentali, quelle puttane!). Il tutto avviene contemporaneamente e in un crescendo di gag degne di Benny Hill i tre si trovano a scappare per la città inseguiti da una trentina di ragazze sexy in bikini. Quindi confluiscono nel parco cittadino, dove iniziainvece una coreografia musical.

Non è finita qui. Alla classica scena in cui la bebè si ammala per colpa dei tre neopapà irresponsabili, segue un montaggio alternato dei tre che riscoprono le rispettive fedi: uno va a pregare in chiesa, l'altro alla moschea, il terzo resta a casa con l'espressione triste ma si suppone sia induista. Poi, pentiti e redenti, si riuniscono in ginocchio attorno alla culla della bimba malata e dalla finestra arriva un raggio di luce tipo spirito santo che fa sembrare la scena l'adorazione dei magi. E - miracolo! - la pupa guarisce.

Poi, non ricordo proprio perché, uno dei tre, il pilota, si innamora della figlia di uno sceicco e passa un tempo che a me è sembrato inerminabile a corteggiarla in questo principesco palazzo arabo dove cantano e ballano.

E vissero felici e contenti.

So che sembra incredibile, ma è tutto vero!!!

Immagino che, con queste aspettative, lo spettatore indiano medio, messo davanti a una commedia all'italiana o a un film processuale, si tagli le vene.

Tre cose però ho veramente apprezzato, ok quattro con i popcorn masala: 1) il pubblico partecipa attivamente commentando ad alta voce, applaudendo, cantando 2) tutti gli attori sanno cantare e ballare discretamente, 3) all'inizio del secondo tempo i suddetti attori ballano e cantano come in un videoclip per un'intera canzone dando così a tutti gli spettatori il tempo di tornare dalla toilette. Geniale!

martedì 12 febbraio 2008

I giganti buoni e gli indiani

"What we are doing to the forests of the world is but a mirror reflection of what we are doing to ourselves and to one another". Mahatma Ghandi

In basso a destra, se guardate bene, ci sono io, in tutto il mio metro e 60 cm. Fate voi i conti sulle dimensioni dell'albero...


A Milano non c'è molto verde a interrompere la successione di palazzi. Nell'asfaltare la città, navigli compresi, devono essersi fatti prendere un po' la mano e quando se ne sono accorti era troppo troppo tardi. Mi immagino la scena... "Ecco cosa abbiamo dimenticato!" "Azz... gli alberi!". Un po' come in quell'episodio dei Simpson ambientato nel vecchio west, quando Homer fa fuori l'ultimo bisonte rimasto e poi esclama "Doh!".

Così riguardo sempre con piacere le foto degli alberi giganti dell'India. Uno spettacolo della natura. Altissimi. Con tronchi attorcigliati e radici come serpenti. Così belli e maestosi da costruirci un tempio attorno per adorarli (vedi l'ultima foto).

Nella parco nazionale Peryar, famoso per le tigri - che fortunatamente non abbiamo incontrato durante le nostre esplorazioni a piedi nella foresta con il ranger - c'era un cartello che invitava a riflettere sulla bellezza e l'importanza di questi giganti del bosco. Dopo aver spiegato la capacità di questi alberi di creare attorno a loro un microclima stabile e accogliente per molte altre specie, concludeva così:
"We need these trees not for the wood or for some tangible benefits, but to ponder about it all, the overall design, our position in it and also to see ourselves. In their presence it is easy for us to realize with deep humility and also happiness that we are really puny, helpless beings taken care of so well by the collectivity of all the rest".

Mi viene allora in mente un altro indiano che aveva espresso un concetto simile. Si tratta, in realtà, di un indiano d'America:
Capo Seattle. O forse di uno sceneggiatore di Hollywood che ha scritto, per un suo documentario, un bellissimo discorso ambientalista attribuendolo al capo indiano... La paternità del discorso non è chiara. Ma non ha importanza. La sua sostanza è vera. Secondo me, almeno... anche se, dal panorama che vedo dalla mia finestra, capisco che non in molti, troppi, non la pensano così. Eccone un breve estratto:

"La terra non appartiene all'uomo, è l'uomo che appartiene alla terra. Tutte le cose
appartengono a un'unica famiglia e sono collegate tra loro. Non è l'uomo che ha ordito le trame del tessuto della vita, egli è solo uno dei suoi fili. Tutto quello che fa a questo tessuto, lo fa a se stesso".

Amen.